Recensione a Nuovo inizio di Daniele Orso per Pordenoneleggepoesia

Joe Cooper, all’interno di un buco nero conformato a mo’ di tesseratto di eventi (occorsi e futuri), al centro della singolarità cosmica, osserva la propria vita e, in essa, frutto luminoso, sua figlia, con cui cerca di mettersi in contatto per avvertirla del modo onde poter salvare il loro (e nostro) pianeta. È una delle scene culminanti di Interstellar, film di Christopher Nolan di ormai dieci anni fa, la cui trama ricalca il motivo/pretesto di Nuovo inizio, l’ultimo libro scritto da Gianluca D’Andrea e pubblicato da L’Arcolaio nel 2023. Anche in questo libro come nel film di Nolan, un individuo si trova all’interno di una “capsula” spaziale, dopo essere fuggito da un’ apocalisse planetaria la cui natura non viene svelata (al contrario nel film viene specificato trattarsi di una carestia dovuta a un’inarrestabile epidemia di peronospera, un parassita del granoturco, a distruggere irreparabilmente e progressivamente sempre più piantagioni, campi e derrate cerealicole), ma oltre cui è facile scorgere l’ombra dell’ultima pandemia virale da COVID-19, periodo durante il quale è stato composto il libro.

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Nuovo inizio finalista all’XI edizione del Premio di poesia Paolo Prestigiacomo

Nuovo inizio (L’Arcolaio, 2023) finalista al Premio di poesia “Paolo Prestigiacomo” XI edizione

Nuovo inizio – Recensione di Gisella Blanco per Poesia del Nostro Tempo

Gisella Blanco su Nuovo inzio, l’Arcolaio editore.

Nota di Gisella Blanco

Con il Nuovo Inizio, Gianluca D’Andrea (L’Arcolaio) celebra il rituale affascinante e macabro del movimento di condizioni esistenziali opposte, tipico dell’esistenza terrena. E lo fa proprio a partire dalla fine (o dalla sua ipotesi), spettacolare e ironicamente magnificata.
Il paesaggio prettamente industriale e metallico, robotizzato, sembra catapultare la vita in una esasperata dimensione meccanicistica, straniante eppure ancora filtrata da un io-osservatore (“spettatore e interprete”) che domina la percezione sul contesto attraverso una narrazione descrittiva delle cose e della propria reazione alle cose stesse.
La posizione di osservatore dell’io narrante sembra riprodurre l’umanissima (e ricorrente) smania contemporanea di assistere, vedere, conoscere, venire a conoscenza di più eventi possibile, in un contraddittorio vortice di suggestioni tra realtà, memoria e riproduzione/rielaborazione/immagazzinamento automatici dei fenomeni.
Se la mente umana prova a tendere al modello telematico per la gestione – perfino quella emotiva- dei dati empirici con cui entra in contatto, il lapsus è quel beneficio subìto malvolentieri che la mantiene imperfetta e, quindi, ancora animale.
Il lessico riproduce l’area semantica tecnico-industriale e scientifica, applicandola al sentire umano.
L’estraneità di cui è intrisa la percezione del soggetto palesa il trauma, la scissione dell’io dal sé nel mondo, anche se un mondo non appare definibile e individuabile.
L’essere umano ha ceduto (si è arreso? O approfitta dei benefici della resa?) all’alienazione e alla catastrofe della caduta degli dèi (qui apparentemente del tutto assenti), approcciando sé medesimo al proprio ambiente secondo relazioni non di realtà bensì di “verosimiglianza”: si compie un metateatro psichico in cui ogni cosa e ogni individuo potrebbe non esistere, in un “alibi collettivo” che elegge il disastro blanchottiano come salvezza destinale comune.

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In rime sparse il podcast – Francesco Brancati su Nuovo inizio

Più o meno dal minuto 20, Francesco Brancati legge e dice di Nuovo inizio (L’Arcolaio) per In rime sparse il podcast

Nella spirale su Inverso poesia

a cura di Giovanna Frene
dal prosimetro Nella spirale (Stagioni di una catastrofe), (Industria&Letteratura, 2021)


SPOSTAMENTI #95
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole


1. IL TEMPO ENTRA FERREO NELLA SUA ULTIMA ERA

Il primo verso di una poesia di paul Celan mi accompagna a nuove considerazioni su tempi e luoghi della fine.
Il tempo è sempre nella sua ultima era, non esiste. Seguendo László Krasznahorkai: «il mondo non è che un puro delirio di eventi, una frenesia di miliardi e miliardi di accadimenti, e niente è stabilito, niente è fissato, niente è delimitato, afferrabile, tutto scivola via appena cerchiamo di afferrarlo, perché non c’è tempo». Questo tempo inesistente è, paradossalmente, l’ultima possibilità di agganciarsi a qualcosa di concreto. L’emergenza degli eventi è già la loro rielaborazione immaginifica, sempre l’ultima possibilità/potenzialità creativa: «poiché il tempo scivola via in continuazione, essendo del resto questo il suo compito, poiché si tratta di puro svolgimento, si tratta semplicemente e meramente di miliardi di eventi […], gli eventi stessi spariscono nello stesso momento, che è a sua volta irreale». A causa di questo scivolamento che è perdizione, a rendersi necessaria è un’opera di conservazione. tra i miliardi di eventi, l’emergenza è “senziente”, dettata da ricordi forti, fondanti, anche se trasfigurati nella memoria.

Su questa evidenza si basa ogni urgenza artistica e, più nello specifico, della poesia: «questo non è un concetto astratto, bensì qualcosa che finalmente astratto non è, qualcosa di talmente lontano dall’astrazione da porsi come l’unica cosa la cui esistenza possiamo veramente prendere in considerazione».

Da questa osservazione ripartiamo, anche se immersi in una “ferrea ultima era”. È lo stesso Celan a suggerire come avvenga l’evento, come si fissi l’istante: come «un’ora allattata dai lupi» è il tempo in agguato prima di ogni comprensione, prima che sia fatta luce; un’ora che, sempre secondo Celan, “striscia”, prima di “saltarti addosso”. Il segno si tramuta solo allora in “senso”, quando «la scheggia di tempo penetra in te, sempre più fonda». Il dove, cioè lo spazio di collocazione dell’evento emergente, lo decide quell’ora di senso e accade quando il mondo, l’alterità, entra in contatto con l’essere. Quanto intensamente e come avvenga il contatto lo dice la poesia: se Celan nel 1953 è aggredito e assediato dal mondo, Rilke nei primi anni del ‘900 ne è accolto: «Il tuo sguardo, che accolgo / con una guancia come un tiepido cuscino, / arriverà, mi cercherà lungamente – / si poserà, al tramonto, / in grembo a pietre straniere».

Tra violenza e accoglienza l’accesso al mondo può sorgere in una disponibilità sempre rinnovabile, che va sempre rinnovata; una soglia, una breccia che avvii un nuovo ritmo:

Ritmi
per separarsi,
per ripararsi
arrivando al vuoto del soggetto

(H. Michaux, Brecce)

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Nuovo inizio su Nazione Indiana

Con un grazie per la scelta dei testi a Renata Morresi

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Nuovo inizio sulla Gazzetta del Sud

Nuovo inizio su Officina Poesia Nuovi Argomenti

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ESCE NELLA COLLANA “ROSSA” L’ULTIMA OPERA DI GIANLUCA D’ANDREA, “NUOVO INIZIO”, CON LA POST-FAZIONE DI ANTONIO DEVICIENTI.

Un graditissimo ritorno, quello dell’amico Gianluca D’Andrea, che arricchisce il nostro catalogo con la sua ultima opera, “Nuovo inizio“, al termine della quale Antonio Devicienti dà prova di tutta la sua maestrìa critica. Riproduciamo, qui sotto, alcuni testi di questo significativa raccolta.

Il rizoma: immagine di un nuovo inizio della scrittura

Nuovo inizio di Gianluca D’Andrea è un ambizioso, coraggioso poema contemporaneo, un multiforme progetto, una rischiosa proposta.

Post-fazione di ANTONIO DEVICIENTI

Spiego subito il perché abbia scritto contemporaneo e poema in corsivo: si tratta di chiedersi se la forma (chiamiamola così per intenderci) tradizionale della scrittura in versi lineari possa e debba restare l’unico modo d’intendere un’opera di scrittura o se quella che è la proprietà rizomatica, labirintica della “rete” non solleciti o addirittura non pretenda altre forme di scrittura e di sua proposizione ai lettori, dal momento che Nuovo inizio è nato e si è andato formando nello spazio web personale di Gianluca D’Andrea in forma di ipertesto (si veda la nota finale), vale a dire di connessioni e interconnessioni tra testo scritto, filmati, fotografie, altri siti, eccetera; contemporaneo non significa qui per me di argomento contemporaneo, ma consapevole di dover cercare a livello di forma e di lessico, di strutture linguistiche e di ritmi soluzioni necessariamente valide e convincenti proprio nel momento in cui la scrittura cerca di far presa sulla nostra contemporaneità e sulla sua enorme capacità di modificarne la percezione e le relazioni con il linguaggio. Si prospetta, insomma, la necessità (cui non si può e non si deve sfuggire) di un “nuovo inizio” e (mi scuso se il paragone può apparire eccessivo) come Iliade e Odissea stanno all’inizio della nostra civiltà, qui si tenta di dare forma di poema all’esplorazione di realtà sovraccariche di enigmi e di interrogativi perché l’autore sente il bisogno, nello snodo temporale e culturale di questi nostri anni, di esperire nella e con la scrittura un cammino lungo e accidentato, privo di ogni garanzia di successo e che ha bisogno di una forma espressiva ampia, articolata, complessa, mai pacificata, sempre rimessa in discussione.

Gianluca D’Andrea appartiene per età anagrafica e per formazione a un tempo nel quale è stato il libro in forma di volume a permeare l’immaginazione e il modo di percepire il mondo; accanto al libro ci sono state la radio a transistor, la televisione (prima in bianco e nero, poi a colori, ma sempre analogica), il cinema (anche in forma di videocassetta e successivamente di dvd), lo stereo (anche in questo caso prima sotto forma di musicassetta e poi di cd) – ora, invece, le tecnologie informatiche e la rete, gli strumenti che usiamo normalmente, i nuovi tempi e ritmi sia vitali che mentali creati da tutti questi elementi hanno cambiato radicalmente il nostro modo di percepire la realtà e aperto possibilità inedite.

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SPECCHI E SPIRALI: UN DIALOGO TRA GIANLUCA D’ANDREA E LUCIANO MAZZIOTTA

Su Poesia del nostro tempo un dialogo tra me e Luciano Mazziotta partendo da Nella spirale e Sonetti e specchi ad Orfeo.

Immagine di Alexey Titarenko

Gianluca: Ciao Luciano, stavo rileggendo i tuoi sonetti-specchio e più mi inoltro più penso che la tua voce mi risuoni dentro. E non credo sia solo la Sicilia, penso alla dimensione convulsiva del pensiero, al ribollire del logos e al conseguente bisogno di ordine e forma (un po’ eliotiano, lo so). È un forte individualismo con le sue ambivalenze che, mi pare, ci fa rischiare di essere fuori tempo massimo o, chissà, fuori tempo e basta. Provo a spiegarmi andando all’origine: convulsus, convellere‘strappare, sconvolgere’, derivato di vellere ‘tirare’ ed è questa continua tensione tra linguaggio e mondo che crea costante dialettica, cioè il dialogo che anche in questo momento cerchiamo e che è filosoficamente greco, loico, per noi fondamentale, originario direi. Non so quanta maieutica ci sia dentro, perché abbiamo sempre il timore che morale possa diventare moralismo, ma non puoi negare che i tuoi riferimenti siano alti (già solo l’esser “caduto” dentro i Sonetti a Orfeo è una spia del tuo atteggiamento: un “alto” che si confronta col “basso” del servizio, non tanto di traduzione, ma di acquisizione e rielaborazione). Per me, un altro termine concettualmente decisivo, per quanto pericoloso, è metafisica. La nostra poetica fa i conti con questa aspirazione all’oltre, ecco perché è evidente la commistione tra ratio (o extrema ratio, per certi versi) e visio (con tutto quello che comporta in termini di apparizione, spettacolo e voglia compensativa di scomparsa, ecco il residuale barocco che emerge tanto anche nel tuo Posti a sedere). Inoltre, c’è la questione dello stile che non può separarsi da quella ricerca di dialogo di cui cerco di parlarti e che, anzi, ne è fibra intima:

Forma e stile, e retorica nel suo insieme, su cui si sono concentrate tutte le facoltà coscienti del poeta nell’atto della creazione artistica, attendono infatti di essere interpretati per essere messi in dovuta relazione fruitiva con il significato stesso, inconsapevolmente espresso grazie a quella forma, a quello stile, a quella retorica (Dario Calimani, T. S. Eliot – Le geometrie del disordine, Liguori, Napoli 1998, p. 31).

In buona sostanza, immagino un lettore ben disposto a lasciarsi andare al testo, anche alla sua erudizione (e lo riscontro anche in te), alla sua forma per come è più o meno inconsapevolmente nata e che, in qualche modo, “rispecchia” un significato, un mondo, il mondo. Ecco, l’altro è il lettore all’altezza di una forma ed è lui il mondo cui aspiro inconsciamente (col distinguo che, se sul piano critico sembro abbastanza certo, quando arriva la scrittura poetica quella coscienza si disperde).

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